
In questo assolato e primaverile febbraio, una beatitudine che temo pagheremo a caro prezzo tra qualche mese, siamo già a quota 11 film visti (fonte Letterboxd). Se di 2 abbiamo già parlato nel precedente Capitolo 369 di Una Vita da Cinefilo, gli altri 9 vi aspettano nelle righe che seguono, tra nuove uscite, rewatch, esordi e roba buona trovata in tv (un’abitudine che avevo perso e che è stato bello ritrovare). Andiamo a scoprire le ultime cose che ho visto, magari ci trovate qualcosa che vi potrà interessare. Come dice sempre il saggio: “Le persone che vi fanno conoscere nuovi film sono importanti”. Tenetevele strette, perché i bei film sono la migliore medicina per la malinconia.
Medicine for Melancholy (2008): Nelle ultime settimane la piattaforma Mubi ha inserito i film d’esordio di molti registi di successo, come Robert Ostlund, Justine Triet e altri, tra cui Barry Jenkins, che con questo lavoro del 2008, a neanche trent’annni, gira un’opera prima forse un po’ acerba, ma decisamente promettente. Un ragazzo e una ragazza, entrambi afroamericani, si incontrano a una festa in casa di amici e passano la notte insieme. Il mattino dopo, in hangover, si allontanano dall’abitazione e lui farà di tutto per riuscire a conoscere meglio la ragazza. Un mumblecore in piena regola, camera a mano come se non ci fosse un domani, un discorso molto coinvolgente sull’identità afroamericana, osservata da due punti di vista diversi, ma anche un accenno più che interessante sulla gentrificazione di San Francisco. I classici film che piacciono a me, incentrati su persone comuni che fanno vite comuni e che tentano, disperatamente, di rendere un po’ più speciali le loro giornate. Bello.
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Past Lives (2023): Un’altra opera prima, il clamoroso e sconvolgente esordio di Celine Song, che propone una vicenda autobiografica condensando la trilogia dei Before di Linklater in un unico film, quasi. A Seul, due amici d’infanzia dodicenni si separano quando la famiglia di lei lascia la Corea per trasferirsi in Canada. Più di vent’anni dopo si ritroveranno a New York, dove si confronteranno con le scelte della vita, il destino, il passato, ma anche sul bisogno di ridare forma a un ricordo, o all’idealizzazione di esso. Per approfondire vi rimando alla recensione, per il resto posso dire soltanto una cosa: se questo mese avete tempo di andare al cinema per vedere solo un film, fate che sia questo. Meraviglioso.
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We Are The World (2024): Io sono nato nel 1981 e, come per tanti bambini della mia generazione, uno dei ricordi musicali più potenti dell’infanzia è senza dubbio il ritornello della canzone We Are The World, un progetto ideato da Harry Belafonte e messo in piedi da Lionel Richie, grazie alla fondamentale collaborazione di Michael Jackson, Quincy Jones e 45 tra i più famosi cantanti statunitensi del periodo, allo scopo di incidere un pezzo che possa sensibilizzare sulla piaga della fame nel mondo ma, soprattutto, raccogliere fondi per i bambini africani. Come si fanno a riunire 45 artisti, impegnatissimi, con le date stracolme di tour e appuntamenti, in un solo luogo, per fargli incidere un pezzo in un solo giorno (anzi, una sola notte)? Ce lo racconta questo interessante documentario di Bao Nguyen, tra strabilianti immagini d’archivio e, un po’ meno interessanti, interviste da servizio televisivo realizzate ai giorni nostri. Lasciate fuori il vostro ego, ammoniva il produttore Quincy Jones con un cartello alla Ted Lasso, appeso sopra la porta della sala di registrazione. Il 28 gennaio 1985 si consumava dunque un piccolo grande miracolo musicale, con gente come Stevie Wonder, Michael Jackson o Cyndi Lauper, gomito a gomito con Bob Dylan, Bruce Springsteen, Paul Simon e tanti altri. Devo dire che è stato strano, una volta finito il documentario, girare su Sanremo e passare da Ray Charles e Tina Turner a La Sad e Geolier. Ad ogni modo, il documentario di Nguyen, presentato il mese scorso al Sundance, lo trovate ora su Netflix.
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Vizio di Forma (2014): Qualche sera fa in tv hanno passato quella meraviglia di Licorice Pizza, di Paul Thomas Anderson. Ho rivisto l’ultima mezzora e ho pensato a quanto mi mancavano le atmosfere di Inherent Vice, che non guardavo da troppo tempo. Figuratevi se riesco a tenere a bada un desiderio così facilmente realizzabile: poche sere dopo rieccomi sul divano a ritrovare la bellezza di questo film con Joaquin Phoenix, che avevo visto e amato al cinema ormai dieci anni fa. Un meraviglioso e grottesco noir moderno, con un investigatore privato decisamente sopra le righe, intento a indagare sulla sparizione della sua ex, mai realmente dimenticata. Da un romanzo altrettanto pazzo (ma bellissimo) di Pynchon, un film che mette nel frullatore Pulp di Bukowski, la Los Angeles hippie de Il Grande Lebowski, un intreccio ingarbugliato come ne Il Grande Sonno, oltre al magnifico stile visivo di Anderson. Un trip allucinato, condito da una grande colonna sonora, da vedere e rivedere.
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Il Laureato (1967): Mentre fai zapping in tv e ti trovi davanti i titoli di testa di questo capolavoro di Mike Nichols, come fai a cambiare canale? Semplice: non lo fai. Presenza fissa nella Top10 dei miei film della vita, il Benjamin Braddock di Dustin Hoffman è senza dubbio uno di quei personaggi che hanno modellato la mia personalità, hanno avuto una seria influenza sul mio modo di essere. Non che sia mai andato a letto con amiche dei miei genitori, per carità, e neanche ho mai fatto irruzione in una chiesa per impedire un matrimonio, ma l’irrequietezza, l’indolenza, la ribellione di fronte alle imposizioni della società, sono tutti tratti che ho sentito miei sin dalla prima visione. Tra l’altro ho un ricordo preciso della prima volta in cui ho visto questo film: avevo 22 anni, quasi 23, quando presi in prestito il dvd del film dalla biblioteca comunale. Lo guardai a casa un pomeriggio e, tanto mi piacque, che una volta finito l’ho rivisto immediatamente, da capo! Alla fine della seconda visione ho poi messo sulla Rai, stava cominciando Italia-Norvegia, valida per le qualificazioni al Mondiale 2006 (il giorno in cui Daniele De Rossi esordì in nazionale, segnando un gol dopo pochi minuti, ma questa è un’altra storia). Inutile aggiungere altro, un capolavoro.
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I Giorni del Vino e delle Rose (1962): Come dicevo in apertura, le persone che vi fanno conoscere nuovi film sono importanti, per questo ringrazio chi, ogni giovedì, partecipa alla mia richiesta social (in particolare sulle storie di instagram) in cui vi chiedo il titolo del film più bello che avete visto negli ultimi giorni. Su twitter, Giovanni mi ha consigliato questo film di Blake Edwards e non ho perso tempo a inserirlo in watchlist. Jack Lemmon si innamora della segretaria del suo capo, la corteggia, la sposa, fanno una bambina, ma ben presto la coppia precipita nel tunnel dell’alcolismo. Vedendo la leggerezza con cui comincia la storia, oltre alla presenza di Lemmon, celebre soprattutto per i suoi ruoli comici, non mi aspettavo assolutamente la drammaticità degli ultimi due atti del film, che mi hanno davvero fatto soffrire. Attori straordinari (nomination agli Oscar sia per Jack Lemmon che per Lee Remick), il film che non ti aspetti, con una sequenza finale splendida, tra l’altro un rarissimo caso di riprese girate in ordine cronologico, come a voler coinvolgere ancor di più gli attori nell’incubo in cui finiscono i loro personaggi. Non è esattamente la mia tazza di tè, ma è senza dubbio un film splendido, forse uno dei migliori in assoluto nel raccontare cosa sia e quanto male faccia una dipendenza così grave.
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Festen (1998): Se avessi bevuto uno shot per ogni momento in cui succede qualcosa di imbarazzante, alla fine del film sarei stato ubriaco. Questo per far capire il caos generato da una delle riunioni di famiglia più celebri della storia del cinema, opera seconda di Thomas Vinterberg, che nei decenni successivi si sarebbe imposto a livello internazionale grazie a film del calibro de Il Sospetto o Un Altro Giro (Premio Oscar per il miglior film straniero). In occasione del suo sessantesimo compleanno, un magnate dell’acciaio riunisce in un’enorme villa parenti e amici, tra cui i tre figli. Durante la serata però il primogenito farà un brindisi agghiacciante, che stravolgerà totalmente la situazione. Primo film (insieme al bizzarro Idioti di Von Trier) ad aderire al manifesto del movimento Dogma 95, è un giro sulle montagne russe dell’imbarazzo e delle problematiche relazioni tra famigliari. Un classico imperdibile, lo trovate su Mubi.
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La Fiammiferaia (1990): Il Kaurismaki che non ti aspetti. Se Jeanne Dielmann fosse nata in Finlandia forse si chiamerebbe Iris, come la protagonista di questo film. Impiegata in una fabbrica di fiammiferi (che spettacolo la sequenza d’apertura!), la giovane Iris mantiene con il suo stipendio la madre e il patrigno, tuttavia è l’unica a non trovare mai un cavaliere quando va in discoteca, a differenza delle altre donne che sono sempre invitate a ballare. Un giorno acquista un vestito più sgargiante, attirando su di sé gli insulti del marito della madre, ma riuscendo anche a ricevere l’attenzione desiderata di un uomo, che però non corrisponde esattamente all’amore tanto agognato. Difficile commentare quest’opera del regista finnico senza spoilerare l’ultimo atto, possiamo però parlare di come il lavoro in fabbrica riesca a svestire di umanità chi vi è impiegato, di come i gesti più estremi, nonostante le conseguenze, riescano a risultare così liberatori e autodeterminanti, per usare un termine molto frequente in questi mesi. Ecco, diciamo che questo sarebbe stato un film molto attuale nelle ultime annate cinematografiche, invece è un film del 1990. Questo dovrebbe bastare a far comprendere il suo valore. Per il resto, solita messa in scena minimalista, essenziale e, ovviamente, splendida. Lo trovate su Mubi.
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Mission: Impossible (1996): Quasi trent’anni fa vedevo e rivedevo questo film su TelePiù, ammaliato dalla bellezza di Emmanuelle Béart, certo, ma anche rapito dalla messa in scena di Brian De Palma. Come molti di voi sanno bene, i film d’azione non sono proprio il mio pane quotidiano, ma questo è un perfetto esempio che a fare il cinema sono gli autori, più che il genere cinematografico. Se prendi un film basato su un inseguimento pressoché infinito nel deserto e lo fai dirigere a George Miller, quel film diventa Mad Max Fury Road, così come se prendi un film di spionaggio con furti di dati al di fuori di ogni possibile credibilità e lo fai girare a De Palma, quel film diventa questo film, per l’appunto, cioè un classico. Girato tre anni dopo Carlito’s Way, è l’ennesima prova che Brian De Palma è uno dei nomi più sottovalutati della New Hollywood degli anni 70. In tutto questo, va segnalato un cast di tutto rispetto: oltre a Emmannuelle Béart e ovviamente a Tom Cruise, ci sono, tra gli altri, Jon Voight, Ving Rhames, Jean Reno, Kristin Scott Thomas, Vanessa Redgrave ed Emilio Estevez. Bello.
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